A volte, incuranti dei tempi di giustizia abnormi e dei costi conseguenti, alcuni clienti mi chiedono di proporre, contro il coniuge, una domanda di "separazione con addebito".
Di cosa si tratta?
E' presto detto: il nostro sistema giudiziario, nell'ambito della crisi familiare, riconosce sostanzialmente due tipi di procedure.
La prima, più nota, si basa sull'accordo delle parti ed è perciò definita "consensuale".
Con essa i due coniugi, concordi sulla necessità di porre fine al proprio rapporto coniugale, stabiliscono le condizioni della separazione (o del divorzio) redigendo, o facendo redigere da un avvocato, un atto che in effetti somiglia ad un contratto privato.
I patti ivi contenuti saranno poi sottoposti ad un controllo di coerenza con i principi e le norme dell'ordinamento giuridico, e quindi eventualmente "omologato" dal Tribunale competente.
E' una ottima soluzione perché lascia alle parti la libertà di determinare il proprio futuro, e perché si conclude in tempi (relativamente) brevi e con costi sopportabili.
La seconda è invece la strada c.d. "giudiziale", laddove cioè si lascia integralmente al giudice l'onere di indagare sulla situazione di crisi coniugale, determinandone ogni aspetto sia del passato che del futuro. Tale percorso, perciò, richiede una lunga fase istruttoria, nel corso della quale il magistrato raccoglierà le prove necessarie e relative sia agli aspetti comportamentali che patrimoniali, per giungere poi alla sentenza di separazione (o divorzio) in genere dopo diversi anni.
In questo tipo di processo, poi, si può proporre la domanda di cui si diceva all'inizio, ovvero quella di "addebito".
In sostanza, nel chiedere al giudice di valutare sia l'esistenza delle condizioni della separazione che la determinazione dei modi con cui questa dovrà essere disciplinata, gli si domanda anche di dichiarare che la fine del rapporto matrimoniale è "colpa" dell'altro coniuge il quale, con comportamenti tali da violare gli obblighi matrimoniali, ha indotto nel richiedente il venir meno del c.d. "affectio coniugalis", ovvero del legame affettivo su cui si fonda (o dovrebbe fondarsi) la vita di coppia.
Qual'è il motivo che spinge a chiedere tale pronunzia?
Le motivazioni sono di solito fondamentalmente di ordine morale: quando si ritiene di aver subito un torto, una offesa o una serie di comportamenti sleali (si pensi al tradizionale "tradimento" o magari a costanti disattenzioni e sgarbi) si desidera che la propria sorte sia riconosciuta e che il comportamento del coniuge "fedifrago" ottenga la pubblica riprovazione che merita.
D'altro canto, esistono anche moderate conseguenze di ordine pratico: la condanna di "addebito" comporta infatti dei vantaggi di ordine patrimoniale, in favore del coniuge ritenuto "vittima". Ad esempio, se il coniuge "addebitato" dovesse aver diritto ad un assegno di mantenimento, tale assegno gli verrebbe negato. O se dovesse invece corrisponderlo, sarebbe incrementato.
Inoltre, il coniuge "addebitato" viene privato fin da subito della propria qualità di erede, senza attendere, come di consueto, la pronunzia di divorzio.
Tutto sommato, perciò, i vantaggi derivanti dalla pronunzia di addebito, se paragonati ai tempi necessari per ottenerlo, ed ai costi da sopportare, non sono particolarmente significativi, dal punto di vista strettamente materiale.
Più rilevanti restano quelli "morali", di cui si diceva più sopra.
C'è però dell'altro, ad indurre una certa cautela.
La giurisprudenza dominante, nel corso dei decenni, ha gradatamente reso l'accoglibilità della domanda di addebito sempre più ardua.
Soprattutto, si è resa molto stringente l'indagine sul c.d. "momento genetico" della rottura del rapporto coniugale, con l'obiettivo di comprendere se i comportamenti lamentati ed addebitati all'altro coniuge siano stati davvero la causa della fine del matrimonio o piuttosto solo la manifestazione di un malessere già preesistente nella coppia.
Si porta ad esempio una recente pronunzia, Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 13983/14; depositata il 19 giugno, nella quale i magistrati così espongono: "La corte di merito, con motivazione congrua ed immune da vizi logici, ha ritenuto che i comportamenti addebitati al marito allo scopo di indurla ad abbandonare la casa coniugale non potevano dirsi causa, ma conseguenza, di una crisi coniugale già in atto..".
Con analoghi ragionamenti, la giurisprudenza si è spinta a ritenere che anche rapporti extraconiugali e tradimenti possano essere solo una manifestazione della rottura precedente, piuttosto che violazioni degli obblighi matrimoniali idonei a motivare una condanna per addebito.
Perciò, sempre secondo la sentenza citata: "l'addebito della separazione richiede pur sempre la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio - quelli tipici previsti dall'art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. - sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell'intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio per i figli (v., tra le tante, Cass. n. 25843/2013, n. 2059/2012, n. 14840/2006)".
Di ciò sarà opportuno tenere attentamente conto quando, nella fase di consultazione con il proprio avvocato, si dovrà stabilire la strategia processuale da mettere in atto, soppesando con saggezza il rapporto fra costi e ricavi della domanda che si andrà a porre all'attenzione del Tribunale.
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